sabato 17 marzo 2012

Wisteria Lane? Provincia di Dallas

di Ellery Queen

Cappello da cowboy in testa, sguardo di ghiaccio, ghigno luciferino. Tra le icone televisive degli anni ’80 c’è sicuramente lui, J.R. Ewing, il cattivissimo di Dallas, serial tra i più longevi della sua epoca (prodotto per 14 stagioni, dal 1978 al 1991), in grado di sbaragliare la concorrenza di altri telefilm di quel periodo (Dynasty, Falcon Crest) ugualmente basati su faide e amori in ricchissime e litigiosissime famiglie americane. Sono trascorsi più di vent’anni dall’ultimo episodio (intervellati da un paio di tv movies) ma il fascino di Dallas e dei suoi protagonisti – in primis Larry Hagman, interprete del perfido primogenito di casa Ewing – non ha perso appeal per i teledipendenti, che si chiedono con giustificata rabbia per quale astrusa ragione l’Italia sia forse l’unico grande paese al mondo dove a ncora non sono disponibili in dvd le 14 stagioni dell’epopea creata da David Jacobs e pilotata, per la Lorimar productions, dal produttore-regista-sceneggiatore Leonard Katzman.

Ora si attende con curiosità la messa in onda – dal 13 giugno negli Usa – del nuovo Dallas, incentrato sulle vicende dei figli di J.R. e di Bobby Ewing, John Ross e Christopher. Nuova generazione, stessi conflitti del passato e un cast di giovani attori (protagonisti Josh Henderson e Jesse Metcalfe, quest’ultimo noto in Italia nei panni dell’aitante giardiniere che conquista, in Desperate Housewives, le grazie di Gabrielle Solis) con la carismatica partecipazione di tre dei mostri sacri dell’epoca: Linda Gray (Sue Ellen), Patrick Duffy (Bobby), e ovviamente lui, super Larry Hagman, oggi 80enne e nuovamente ammalato di tumore (dopo aver già sconfitto un cancro in passato) ma sempre in prima linea nel condurre intrighi in salsa texana, tra politica e affari.

Sarà molto difficile, per non dire impossibile, che la nuova serie affascini il pubblico e catturi l’audience come quella originale. Si spera, semmai, che la produzione della nuova serie convinca i detentori dei diritti italiani a distribuire finalmente il ‘vecchio’ Dallas anche in dvd. Negli ultimi anni, Hallmark Channel ha riproposto quegli episodi in tv e chi li ha seguiti ha potuto constatare come le trame e la recitazione del serial reggano e spesso vincano il confronto con molte delle osannate serie contemporanee, almeno per le prime sei-sette stagioni e prima che il logorio della serialità avesse la meglio sulla fantasia degli sceneggiatori.

Il modello della grande saga familiare oggi è praticamente scomparso dagli schermi, specie dopo il flop di Dirty Sexy Money, che per sole due stagioni aveva provato a riproporre quei plot in chiave attuale reclutando stelle di ieri e di oggi (Peter Krause, Donald Sutherland, Jill Clayburgh). Ciò nonostante, Dallas resta un modello per certi versi insuperato di produzione cattura-ascolti basata su un intreccio intrigante ma lineare, senza effetti speciali e senza improbabili grovigli fatti di cospirazioni e doppi-tripli-quadrupli giochi spesso fini a se stessi. Le storie degli Ewing avvincono e non annoiano; piacciono al pubblico tipico delle soap operas, ma anche ai palati più fini che si lasciano conquistare dai raffinati intrighi di J.R., dal glamour delle quadriglie sentimentali, dagli scontri per conquistare pozzi di petrolio e quote di potere distruggendo gli avversari grazie anche e soprattutto a giocate sporche: corruzione, menzogne, tradimenti e chi più ne ha…
Chi scrive ha rivisto di recente i primi 100 episodi di Dallas. Colpisce il fatto che, con una produzione molto meno costosa di quanto avvenga oggi e team creativi ben più esigui (i titoli di testa dei serial contemporanei sono dominati da schiere di producers, executive producers, co-producers e dintorni, quelli di Dallas erano una manciata di nomi) si riesca a mantenere sempre viva l’attenzione dello spettatore. Era quello degli anni ’80 un pubblico meno smaliziato, e quindi risultava più facile raccogliere milioni e milioni di spettatori davanti all’interrogativo di chi avesse sparato a J.R., ‘mitica’ puntata che fece segnare un record mondiale di audience? Forse. Ma l’artigianato ben fatto conserva nel tempo la sua qualità, e la semplicità non teme il confronto con gli anabolizzati epigoni di una televisione sempre più abituata a mascherare la carenza e la ripetitività delle idee dietro confezioni patinate, dove l’involucro elegante cela la pochezza del contenuto. E allora ben venga, o ritorni, un sano prodotto d’altri tempi: come ben sintetizza un mio amico e complice di sbornie televisive, non puoi apprezzare Ammaniti se non conosci Poe. E dunque Dallas rappresenta un archetipo irrinunciabile anche per i tv-addicted del Duemila.

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