di Ellery Queen
Avete presenti gli improbabili intrecci a base di
inverosimili coincidenze che si moltiplicano nei serial dopo quattro-cinque
stagioni, sintomo di grave stanchezza creativa degli sceneggiatori e preludio alla
mesta chiusura della serie? Gli ideatori di Touch,
in onda da tre settimane su Fox, hanno pensato di fare di meglio (si fa per
dire). Ed ecco quindi, non dopo qualche anno ma sin dall’inizio, trame
basate quasi esclusivamente sul non plausibile. Kiefer Sutherland, a spasso
dopo le ultime poco gloriose annate di 24 e il
continuo rinvio della trasposizione cinematografica delle avventure di Jack
Bauer, ci mette la faccia come protagonista e produttore esecutivo; ma appare
difficile che Touch possa sopravvivere oltre la
prima stagione, almeno se la serie proseguirà nel solco di quanto visto con i
primi episodi.
L’idea di fondo è per certi versi ambiziosa:
trasformare in storie di vita vissuta le teorie secondo cui le leggi
matematiche, più o meno invisibili, siano alla base della vita degli esseri
umani e creino connessioni misteriose tra le esistenze, così che le singole
vite, per un perverso (o benefico, chi può dirlo…) effetto domino,
possano essere sconvolte – o salvate – da un gesto apparentemente
insignificante compiuto con noncuranza dall’altra parte del globo. Idee
suggestive e impalpabili, care ai filosofi della matematica, che Tim Kring
– creatore di Touch – e i suoi
sceneggiatori mettendo in pratica esasperando (… e superando ampiamente i
limiti dell’inverosimile) gli intrecci, gli incontri e le loro
conseguenze. Nel secondo episodio, ad esempio, un boss mafioso russo si redime
per un’improvvisa telefonata del figlio; la sua conversione salva la vita
a un venditore di arachidi che gli doveva dei soldi; il venditore di arachidi
può così uscire da uno stadio lasciando la porta socchiusa, e consentendo a un
giovane indiano di superare i controlli, entrare nell’impianto e spargere
sul prato le ceneri del padre, appassionato di baseball. Non finisce qui, roba
da fare un baffo a Branduardi e alla sua Fiera dell’Est. L’indiano
si era incontrato in precedenza con una hostess, che si lascia scappare un cane
destinato al figlio del mafioso russo; per inseguire il quadrupede, la ragazza
arriva sul tetto di un ospedale appena in tempo per riconciliarsi con il padre
malato di cancro; il pover’uomo stava per lanciarsi nel vuoto, a malapena
trattenuto dal povero Sutherland (trovatosi lì non chiedetemi come e perché, mi
ci sono perso…) coinvolto in questo improbabile ginepraio di azioni e
reazioni dal figlio autistico.
Il bambino, dietro il muro del silenzio e
dell’incomunicabilità, cela la dote di saper penetrare la trama dei
numeri e delle connessioni che legano l’universo; dunque conosce –
e favorisce – mosse assurde ma destinate a produrre inimmaginabili quanto
benefiche conseguenze.
Simili plot odorano di artefatto lontano un miglio, e quindi
non riescono a coinvolgere e nemmeno a suscitare quella lacrimuccia che è
l’obiettivo palese di una trama inverosimilmente buonista, dove tragedie
di ogni tipo si incrociano producendo, per chissà quale misteriosa somma
algebrica, un’impressionante serie di happy end messi in fila. Il
risultato è noioso, stucchevole. Certo, si potrebbe obiettare, gli appassionati
della tv fiction amano sognare, godono nello scoprire labirinti su isole
perdute nel tempo e nello spazio; non a caso il meccanismo della
‘sospensione dell’incredulità’ è teorizzato come elemento
essenziale per calarsi in una rappresentazione e gustarla a fondo. Sì, ma
occorre sempre saper giocare con lealtà le carte che si hanno in mano e
rispettare le premesse di partenza. Se costruisco un serial basato sul
paranormale, ogni sconfinamento nell’improbabile è lecito. Se pretendo di
avvincere gli spettatori con intrecci di storie ‘normali’, e non
posseggo il talento narrativo del regista Inarritu (che in 21
grammi e Babel costruisce mosaici di
vite a incastro suscitando profonde emozioni), ho l’obbligo di conservare
almeno una parvenza di plausibilità. Anche perché la vita, quella vera, scorre
– ahinoi – su binari fin troppo diversi da quelli di Touch. E la melassa del lieto fine a tutti i
costi, anziché consolare, finisce per essere irritante.
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