mercoledì 4 aprile 2012

Touch. Toccante quanto un ramo d'ortica

di Ellery Queen  

   Avete presenti gli improbabili intrecci a base di inverosimili coincidenze che si moltiplicano nei serial dopo quattro-cinque stagioni, sintomo di grave stanchezza creativa degli sceneggiatori e preludio alla mesta chiusura della serie? Gli ideatori di Touch, in onda da tre settimane su Fox, hanno pensato di fare di meglio (si fa per dire). Ed ecco quindi, non dopo qualche anno ma sin dall’inizio, trame basate quasi esclusivamente sul non plausibile. Kiefer Sutherland, a spasso dopo le ultime poco gloriose annate di 24 e il continuo rinvio della trasposizione cinematografica delle avventure di Jack Bauer, ci mette la faccia come protagonista e produttore esecutivo; ma appare difficile che Touch possa sopravvivere oltre la prima stagione, almeno se la serie proseguirà nel solco di quanto visto con i primi episodi.
   L’idea di fondo è per certi versi ambiziosa: trasformare in storie di vita vissuta le teorie secondo cui le leggi matematiche, più o meno invisibili, siano alla base della vita degli esseri umani e creino connessioni misteriose tra le esistenze,  così che le singole vite, per un perverso (o benefico, chi può dirlo…) effetto domino, possano essere sconvolte – o salvate – da un gesto apparentemente insignificante compiuto con noncuranza dall’altra parte del globo. Idee suggestive e impalpabili, care ai filosofi della matematica, che Tim Kring – creatore di Touch – e i suoi sceneggiatori mettendo in pratica esasperando (… e superando ampiamente i limiti dell’inverosimile) gli intrecci, gli incontri e le loro conseguenze. Nel secondo episodio, ad esempio, un boss mafioso russo si redime per un’improvvisa telefonata del figlio; la sua conversione salva la vita a un venditore di arachidi che gli doveva dei soldi; il venditore di arachidi può così uscire da uno stadio lasciando la porta socchiusa, e consentendo a un giovane indiano di superare i controlli, entrare nell’impianto e spargere sul prato le ceneri del padre, appassionato di baseball. Non finisce qui, roba da fare un baffo a Branduardi e alla sua Fiera dell’Est. L’indiano si era incontrato in precedenza con una hostess, che si lascia scappare un cane destinato al figlio del mafioso russo; per inseguire il quadrupede, la ragazza arriva sul tetto di un ospedale appena in tempo per riconciliarsi con il padre malato di cancro; il pover’uomo stava per lanciarsi nel vuoto, a malapena trattenuto dal povero Sutherland (trovatosi lì non chiedetemi come e perché, mi ci sono perso…) coinvolto in questo improbabile ginepraio di azioni e reazioni dal figlio autistico. 
   Il bambino, dietro il muro del silenzio e dell’incomunicabilità, cela la dote di saper penetrare la trama dei numeri e delle connessioni che legano l’universo; dunque conosce – e favorisce – mosse assurde ma destinate a produrre inimmaginabili quanto benefiche conseguenze.
    Simili plot odorano di artefatto lontano un miglio, e quindi non riescono a coinvolgere e nemmeno a suscitare quella lacrimuccia che è l’obiettivo palese di una trama inverosimilmente buonista, dove tragedie di ogni tipo si incrociano producendo, per chissà quale misteriosa somma algebrica, un’impressionante serie di happy end messi in fila. Il risultato è noioso, stucchevole. Certo, si potrebbe obiettare, gli appassionati della tv fiction amano sognare, godono nello scoprire labirinti su isole perdute nel tempo e nello spazio; non a caso il meccanismo della ‘sospensione dell’incredulità’ è teorizzato come elemento essenziale per calarsi in una rappresentazione e gustarla a fondo. Sì, ma occorre sempre saper giocare con lealtà le carte che si hanno in mano e rispettare le premesse di partenza. Se costruisco un serial basato sul paranormale, ogni sconfinamento nell’improbabile è lecito. Se pretendo di avvincere gli spettatori con intrecci di storie ‘normali’, e non posseggo il talento narrativo del regista Inarritu (che in 21 grammi e Babel costruisce mosaici di vite a incastro suscitando profonde emozioni), ho l’obbligo di conservare almeno una parvenza di plausibilità. Anche perché la vita, quella vera, scorre – ahinoi – su binari fin troppo diversi da quelli di Touch.  E la melassa del lieto fine a tutti i costi, anziché consolare, finisce per essere irritante.

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