lunedì 12 marzo 2012

Homeland, l'autoanalisi collettiva post 9/11

Direi che è giunto il momento di dire due parole su Homeland, sicuramente la migliore novità della stagione, targata Showtime, quelli di Dexter, Californication e Shamless, tanto per buttarne lì tre.
E' giunto il momento perchè, siamo alla sesta puntata, la serie nata dalla penna di Alex Gansa e Howard Gordon (due che si sono fatti le ossa con X Files e 24, per intenderci) comincia a delinearsi come una grande autoanalisi collettiva dell'americano medio a dieci anni dall'11 settembre.
La serie parte da una soffiata in una prigione afgana a Claire Danes: un americano convertito all'islam prepara un nuovo, disastroso attentato su suolo Usa. Guarda caso proprio in quei giorni  un marines dato per morto otto anni prima viene ritrovato sano (non tanto) e salvo (questo sì) e torna in patria. La ragazza fa due più due e si accanisce sul redivivo soldato. Da questo momento, però, i ruoli cominciano  confondersi. 
C'è un alto in grado della Cia (Mandy Patikin) che prega in ebraico ma forse...
C'è una coppia formata da una ragazza americana e un ingegnere afgano in cui la terrorista è lei...
C'è la protagonista, l'ex Giulietta di Baz Luhrmann, che interpreta una donna psicotica ma nonostante questo in forza alla Cia. E questo scalfisce un bel po' di certezze
C'è insomma la consapevolezza nello spettatore che una certa idea di America granitica nella lotta al terrore sia stata solo propaganda e che Homeland (guarda caso "madrepatria") sia lì apposta per smascherarla. Un'idea non a caso premiata da chi ha un certo sguardo indipendente sugli Usa e infatti la serie ha vinto il Golden Globe (assegnato dalla stampa estera a Hollywood) come miglior serie drammatica.
E, insomma, se l'idea è questa vale davvero la pena di seguirlo.

1 commento:

  1. Sì, vale la pena seguirlo anche per l'elevata qualità delle sceneggiature e della regia, e per un cast che si dimostra di gran lunga superiore alla media televisiva. Gli spunti originali non mancano, a cominciare dalla protagonista Carrie Mathison, vittima di sensi di colpa e gravi psicosi che la rendono dipendente da farmaci: Claire Danes è eccellente nel trasferire sul piccolo schermo ansie e nevrosi di una analista della Cia che si trova sempre più coinvolta sul piano personale nella ''caccia alla spia''. Carrie e' convinta della colpevolezza del sergente Nicholas Brody (un eccezionalmente ambiguo Damian Lewis) e gioca con lui una partita a scacchi sempre piu' ricca di colpi di scena. Ma il merito del telefilm e dei suoi autori è anche e soprattutto quello di approfondire le dinamiche psicologiche dei protagonisti: la complessa relazione di Brody, che torna a casa dopo otto anni di prigionia, con i figli piccoli (che in pratica non lo hanno mai conosciuto) e con la moglie, che nel frattempo aveva intrecciato una relazione con il suo migliore amico; i sensi di colpa di Carrie per non aver saputo impedire il massacro dell'11 settembre, i suoi conflitti con il collega Saul e con il superiore David Estes (con il quale aveva avuto anche una storia finita male, tanto per rendere il quadro più gravido di tensione...), la solitudine che concorre ad assolutizzare a livelli patologici il suo rapporto con il lavoro...
    Già la suggestiva sigla di apertura è un biglietto da visita eloquente: notte jazz dissonanti si dipanano tra immagini di attentati del passato e volti di presidenti ed ex presidenti Usa, alternate a foto del passato di Carrie che compare a volte con il viso coperto da una maschera ed a volte prigioniera di un labirinto...
    La prima stagione di Homeland si compone di 12 episodi, e ne è stata già messa in cantiere una seconda. Il plot si basa sulla serie della tv israeliana ''Prisoners of war'', riadattata in chiave statunitense. Riusciranno i veterani della tv Howard Gordon ed Alex Gansa (autori di alcune tra le migliori puntate delle prime tre serie di X-Files) ad evitare il logoramento della lunga serialità?

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